giovedì 30 dicembre 2010

MISTER PARKINSON 5

Mister Parkinson 5
5^ puntata

La Rivoluzione industriale e una bocciatura provvidenziale

Ormai, grazie a Internet e soprattutto ai sacri testi di medicina, io e Iole conosciamo quasi tutto sul nostro vicino di casa Mister Parkinson. Sappiamo, ad esempio, che durante la Rivoluzione Industriale della fine del 700, il nostro silente coinquilino era ancora un perfetto sconosciuto. Poi arrivò l’era del carbone industriale per la fornitura di energia a gogò,  e fu così che dalle  ciminiere delle fabbriche londinesi della prima  metà dell’800 e lungo i luccicanti binari dei treni a vapore, scaturì all’aperto questo morboso compagno di camera.
Naturalmente né il sottoscritto né tantomeno mia moglie possiamo affermare con assoluta certezza che fu tutta colpa del carbone. La sola cosa certa è che fu proprio in quell’interludio secolare di grandi scommesse per l’Umanità che un attento studioso londinese, il dottor James Parkinson, descrisse per la prima volta, nel 1817, questo strano malanno, che lui stesso chiamò “paralisi agitante”, che è quasi una sorta di controsenso in termini, ma che spiegava molte cose già da allora.
Così, partendo dall’energia a carbone per arrivare a quella atomica, passando per la petrolchimica di Porto Torres e dintorni, oggi sappiamo che alla base di tutto c’è che anche nel nostro cervello esiste una certa “sostanza nera”, che non va né a carbone né a petrolio, ma trattasi di una particolare formazione nervosa situata nel mesencefalo, dove si produce proprio la dopamina, che a sua volta agisce da neurotrasmettitore connesso al cosiddetto “corpo striato”, un altro luogo cerebrale misterioso, che pare controlli le funzioni motorie del nostro organismo, compresi i muscoli e tutta la meccanica dei nostri movimenti.
Perciò, senza dopamina (presumibilmente uccisa, ad una certa età, “dae su progressu, gazzu!”), a soli 72 anni,  niente più ginnastica, né salto con l’asta e perfino qualche difficoltà nell’uso del rasoio da barba con la mano destra. Poco male, comunque, per uno come me che ha imparato a calciare col sinistro, anche se non gioco più al pallone da quasi sessant’anni.
Le ultime partite vere risalgono ai tempi della scuola media. Giocavo sempre da terzino sinistro nella mitica squadra della sezione F della scuola media n. 2
I tempi della Brigata Sassari erano finiti grazie ad una provvidenziale bocciatura proprio in prima media, dovuta ad un professore stronzo, che durante tutto l’anno, allo scopo di dimostrare ad una  scolaresca di figli di papà che un povero orfanello collegializzato come me non poteva essere all’altezza del loro lignaggio di piccoli borghesi emancipati, m’aveva messo nella condizione di fare quasi sempre scena muta (all’epoca, i professori stronzi erano particolarmente abili in queste particolari strategie scomunicative). Una volta arrivò al punto d’impiastricciarmi la faccia col gesso, giusto per far scompisciare dalle risate i mie compagni emancipati, mentre cercava di farmi ripetere la declinazione latina del superlativo “illimus, illima, illimum”. Da quella volta mi chiusi nel mio mutismo più assoluto. L’unica reazione piuttosto appariscente agli sberleffi del prof fu il ritorno sistematico del tic alla destra del collo, con frequenti contrazioni mascellari, che furono da lui interpretati spesso come forma di sprezzante menefreghismo, che mi costavano felici espulsione dall’aula. Evvai, mister parkinson junior!
Alla fine dell’anno mi diede appuntamento a settembre con ben quattro materie da  recuperare, che io mi guardai bene dall’approfondire durante l’estate trascorsa casa, perché ormai ero abbastanza informato da sapere che sarebbe bastata una bocciatura a scuola per essere “scacciato” ignominiosamente  dal Collegio. Cosa che avvenne puntualmente alla riapertura del nuovo anno scolastico. E pensare che in tutti quei cinque anni di clausura, il mio unico obiettivo era sempre stato quello di studiare, più o meno scientificamente, come prendere il volo oltre le sbarre di ferro della cancellata e filarmela per sempre, senza l’aiuto di nessuno, tanto meno di un professore stronzo..
La sola cosa che mi dispiacque tantissimo, in quella magnifica occasione, fu l’aver dovuto abbandonato mio fratello Umberto a cavarsela da solo, negli umidi androni e nei dormitoi gelati della Brigata Sassari. Non sono mai riuscito a capire quanto gli costò la mia assenza nei suoi due anni di prigionia che seguirono. Ora non aveva più nessun fratellino da proteggere e nessun alibi per difendere se stesso.  
In quanto a me, ricominciai tutto daccapo nella stessa scuola media numero 2, ma con ben altri compagni e professori. Era l’autunno del 1951 e si respirava un po’ dappertutto un’aria completamente nuova, scuola compresa, che proprio da quell’anno sembrò imboccare una nuova strada.
Il mio obiettivo principale, da quel momento in poi, fu uno solo, ma definitivo e categorico: dimenticare quei cinque anni perduti della mai infanzia, per rinascere e ricostruire una vita nuova.
La tecnica di approccio a questa nuova visone del mondo fu semplice ed efficace allo  stesso tempo. Cancellai dalla mia memoria il Collegio e tutte le sue regole semicarcerarie; dopo di che mi applicai a scoprire sistematicamente il mondo “esterno” com’era veramente, senza i condizionamenti e le inibizioni del mo vecchio status forzato di collegiale, cercando di dare un senso concreto a tutte quelle pulsioni e scoperte che l’età preadolescenziale metteva in prepotente evidenza, riempiendo il mio cervello di sensazioni mai provate prima. Insomma, un vero gioco da ragazzini!
Ma la cosa che mi affascinò di più, dopo le prime esperienze di libertà e di autonomia, fu la scoperta del concetto di appartenenza ad una vera classe,  che voleva dire amicizia a vari livelli. Nel nostro caso, la classe si divideva in “greffe”, e cioè in bande ristrette di veri amici indivisibili, dove nessuno era un vero capo, ma ciascuno poteva diventare leader in circostanze diverse.
Nelle partite di calcio, per esempio, che giocavamo quasi tutti i sabati nel cortile interno della scuola,  il leader riconosciuto era Pasqualino; piccoletto e scattante,  lui giocava in mezzo al campo e distribuiva palloni a tutti con precisione, non disdegnando di segnare dei bei goal da qualunque posizione.
Ma nell’attività fisica in generale, il vero leader era Tonuccio, che stava sempre davanti a tutti nelle gare sportive di ogni genere, compreso il calcio, naturalmente, dove giocava all’ala ed era una vera freccia imprendibile. Da grande si occupa ancora di calcio giovanile, soprattutto come allenatore, tanto da diventare delegato nazionale dell’AIAC (Ass. Naz. Allenatori Calcio).
E poi c’era Gianni, detto Johnny, che non arrivava quasi mai a toccare il pallone, perché era miope come una talpa, ma si divertiva più di tutti.
In quanto al sottoscritto, oltre a difendere la porta da battitore libero, leggevo da Dio l’Odissea a voce alta, in classe,  per cui la professoressa Cotogno, innamorata di Omero, non perdeva mai l’occasione di farmi declamare i versi del grande poema omerico, che io interpretavo con passione tutta teatrale, perché proprio in quell’anno avevo per la prima volta recitato in parrocchia un particina nel drammone “La cieca di Sorrento”, diretto da mio fratello Giovanni, che mi scaricava di tanto in tanto un  personaggio nel teatrino parrocchiale, giusto per coprire i buchi dell’organizzazione, di cui era  creatore, autore, regista, attore, costumista, scenografo, maschera e addetto alla biglietteria parrocchiale.
Ma poi, un brutto giorno (per me), mentre io ero assente per una banale influenza, arrivò Gavino da Porto Torres (nel senso che viveva proprio a Porto Torres e viaggiava tutti i giorni con il treno), che chiese di poter leggere l’Odissea al posto mio, dimostrando una capacità espressiva “quasi” uguale alla mia. Quando qualcuno mi avvertì della sua esibizione perfetta, ci rimasi malissimo. Tuttavia, in seguito, da buoni “greffaioli”,  non tardammo a metterci d’accordo per letture  alternate e, qualche volta, persino contrapposte teatralmente.  D’altro canto, era difficile anche per me tenere il broncio a uno come Gavino, che a quell’età era una sorta di allegro birillo tondo e grassottello, pieno di spirito satirico. Ce ne accorgemmo tutti quando rivelò un talento da disegnatore caricaturale veramente notevole, soprattutto nel rappresentare a modo suo, alla lavagna, la Prof d’Italiano, la signora Cotogno, che faceva finta di non accorgersi del gioco irriverente, ma solo di quello affettuoso. Il talento di Gavino lo portò, alla fine delle medie, a iscriversi all’Istituto d’Arte per poi, da grande,  recarsi in America, dove diventò uno dei più grandi grafici pubblicitari del mondo.
In quanto a noi, piccoli gregari della greffa, l’America era davvero troppo lontana. Per cui, terminate le Medie, svoltammo l’angolo del corso Regina  Margherita e c’iscrivemmo quasi tutti alle Magistrali, dove scoprimmo finalmente che fine avevano fatto le ragazzine della nostra età, che alla Media 2 erano completamente sparite: forse cacciate via dal Preside, o forse nascoste nei sotterranei dal misterioso Piè  Veloce, custode invisibile e silenzioso del nostro istituto. Ma questa è davvero un’altra storia. Così come la vecchia Brigata Sassari, un po’ acciaccata e piena di tic, per quanto mi riguardava, riviveva soltanto nei normali libri di Storia..



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