sabato 25 dicembre 2010

MISTER PARKINSON 4




MISTER PARKINSON 4   

4^ puntata

Siamo già a Natale. .Auguri sinceri a tutti, compreso quell’ultra cinquantenne scriteriato del mio alter ego parkinsoniano che m’ha fregato la dopamina.
Alcune sere fa sono ritornato dal neurologo per un controllo di routine. Piovigginava con una certa continuità ed io mi lasciavo  condurre dall’ombrello ben stretto nella mano destra, che sembrava essere ritornata a suo agio. Ma dopo un certo numero di passi, il mio braccio sinistro mi ha fatto osservare, con molta discrezione, che essendo l’altro braccio e la relativa mano sotto stretta osservazione (“per  via della dolorosa faccenda del Doctor Jekill e Mister Parkinson, lei  capisce!”), a suo modesto giudizio, sarebbe stato utile passare a lui l’ombrello al fine di non affaticare il suo omologo destro durante la visita.
Lui parla sempre “al fine di” e sa essere molto persuasivo.
Ho cambiato mano all’ombrello, Ma dopo qualche passo, il braccio destro s’è messo a tremolare imbronciato, facendomi capire che non apprezzava affatto questa sorta di sottovalutazione delle sue capacità prensili e di sostegno. E infatti, dopo avergli restituito l’ombrello, il tremore è cessato immediatamente, mente il braccio sinistro metteva mano alla tasca del cappotto con non curanza, come se avesse altri misteri da esplorare nei meandri oscuri del cappotto.
Ho raccontato subito al mio medico l’episodio della strana diatriba silenziosa tra i due miei arti superiori, e lui ha risposto che avevo fatto male ad appoggiare la richiesta un po’ troppo interessata del braccio sinistro, il cui obiettivo era certamente quello  di mettere a disagio il suo omologo destro, la cui funzione, nel mio caso di destrorso naturale, è pur sempre quella di essere dominante e, quindi, di portatore sano di ombrelli e d’altri pesi da trasporto quotidiano; “Non deve mai far comprendere al suo braccio destro, soprattutto ora che è in difficoltà, che può esimersi dal sostenere un  normalissimo ombrello. E’ un problema di fiducia, in buona sostanza, che dovrebbe convincere la parte fisicamente più debole a reagire ai tentativi di prevaricazione, tipica dei mancini”.
La storia dei mancini prevaricatori mi è sembrata subito un po’ forzata, perché proprio quello strano contrasto tra parte destra e parte sinistra (al di là dei possibili risvolti politici) mi aveva riportato  alla mente un altro episodio della mia infanzia di cui vado ancora fiero.
Avevo non più di dieci anni e vivevo ancora  nel Collegio della Brigata Sassari (escluse le festività natalizie, quelle pasquali e le ferie estive). L’unica cosa che m’impediva di prendere il volo alla Peter Pan oltre il cancello del cortile dell’istituto era la partita di pallone domenicale. Per quegli strani giochi di prestigio del caso e della buona sorte, ero riuscito a farmi arruolare in una delle due squadre di calcio che si affrontavano a viso aperto tutte le domeniche nel campetto tracciato nel cortile. Poiché io ero uno dei più piccoli dell’intera compagnia, difficilmente avrei potuto far parte di una squadra dove dominavano con orgogliosa prepotenza i marcantoni della Brigata. Però io ero uno dei pochissimi aspiranti calciatori a propormi come difensore, mentre quasi tutti gli altri aspiravano al ruolo di centravanti alla Silvio Piola.
Per onore di verità, ci mise pure una buona parola mio fratello Umberto, più grande di me di ben due anni, che a quell’età facevano una  bella differenza e che si presentava come il “battitore libero” della squadra: nel senso che era libero di fare (come un po’ tutti, in realtà) i cavoli che gli pareva. Ma la sua  forza maggiore era la straordinaria capacità di “perdersi” distrattamente nell’area avversaria, come se si trovasse lì per caso; e quando il pallone arrivava dalle sue parti, lui allungava il piedino e, di punta o ti tacco, segnava sempre un bel goal. Insomma, mio fratello Umberto fu il più vicno antenato di Paolo Rossi.
Ma ritorniamo al mio ruolo di difensore. Il mio compito, in realtà, era semplice: dovevo solo aspettare che un attaccante avversario arrivasse dalle mie parti, per poi stenderlo con una scarponata sugli stinchi. Qualche volta ci riuscivo, qualche volta no. In compenso l’arbitro, che era quasi sempre un Istitutore e, come tale, acerrimo difensore di noi orfanelli più deboli, dava quasi sempre ragione a me. Comunque, nel frattempo imparai anche a calciare piuttosto bene di destro, mentre il piede sinistro faceva semplicemente da supporto equilibristico.
Una brutta domenica, però, accadde il fattaccio, Capitò sulla mia zona difensiva destra un nuovo arrivato: un ragazzino lungo  e magro,  originario del Campidano, svelto come uno scoiattolo. Arrivò dalle mie parti più veloce di un alano, dove io l’attendevo al varco mirando al perone sinistro; ma l’alano campidanese miracolosamente si fermò di colpo, e il mio piede destro andò diritto a colpire il gradino più basso della Cappella consacrata, dove frantumò l’alluce e buona parte del resto del piede. Un vero disastro!
La partita fu fermata. Subito arrivò suor Brigida da Bergamo Bassa: l’unica suora factotum del Collegio,  autorizzata alla cura delle galline e dei maiali, che pascolavano sull’altro lato del cortile, e a suturare ferite dei collegiali. E mentre mi toglieva la scarpa e curava la ferita, strillava addolorata: “Puarett bambinett! Puarett bambinett!” . Io la guardavo terrorizzato, perché quello strillo quasi isterico mi ricordava la mattanza di primavera, quando giungevano i macellai ad uccidere il maiale grasso, e lei, suor Brigida, arrivava con un coltellaccio in mano strillando. “Puarett maialett! Puarett,maialett!”
Ma il dramma vero arrivò dopo, quando fui costretto a saltare gli allenamenti e, praticamente, a lasciare la squadra. A quel  punto, allo scopo di non morire di depressione, la soluzione più giusta era il suicidio in pubblico o  l’autosepoltura solitaria da “cassinterrato”.
Mentre cercavo di scegliere la più spettacolare uscita di scena, camminando nervosamente nel campetto vuoto, mi resi conto che il mio piede sinistro, pur adeguandosi al passo rallentato del  corpo, riusciva ugualmente a colpire i sassi piccoli e grandi che io scalciavo con rabbia. Così mi vene l‘idea geniale: “Perché  non...”.
Tempo una serata di allenamento intensivo, e subito capii che la soluzione era già a portata di piede. Così, per l’intera settimana  utilizzai tutto il tempo a disposizione per risvegliare il mio mancinismo nascosto e riportarlo alla luce, col dichiarato obiettivo di riappropriarmi del mio ruolo di terzino volante.
La domenica successiva mi presentai in campo con il piede destro protetto da uno stivaletto, requisito chissà da dove dal mio Istitutore  complice, e un piede sinistro quasi magico, che sapeva colpire il pallone un po’ prima dello stinco dell’ala destra avversaria.  Da allora, calcisticamente parlando e non solo, giocai sempre a sinistra, senza tuttavia trascurare l’aspetto razionale del lato destro, portatore sano di ombrelli e di stincate micidiali.
La mia storia del piede sinistro salvatore sembra aver impressionato il mio neurologo, perché ha un pochino corretto la sua interpretazione del mancinismo cinico e prevaricatore, auspicando in conclusione una sana competizione tra i due confini naturali del mio corpo,
Con buona pace di Mr Parkinson, che si associa agli auguri a tutti di un felicissimo Anno Nuovo..

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