giovedì 30 dicembre 2010

MISTER PARKINSON 5

Mister Parkinson 5
5^ puntata

La Rivoluzione industriale e una bocciatura provvidenziale

Ormai, grazie a Internet e soprattutto ai sacri testi di medicina, io e Iole conosciamo quasi tutto sul nostro vicino di casa Mister Parkinson. Sappiamo, ad esempio, che durante la Rivoluzione Industriale della fine del 700, il nostro silente coinquilino era ancora un perfetto sconosciuto. Poi arrivò l’era del carbone industriale per la fornitura di energia a gogò,  e fu così che dalle  ciminiere delle fabbriche londinesi della prima  metà dell’800 e lungo i luccicanti binari dei treni a vapore, scaturì all’aperto questo morboso compagno di camera.
Naturalmente né il sottoscritto né tantomeno mia moglie possiamo affermare con assoluta certezza che fu tutta colpa del carbone. La sola cosa certa è che fu proprio in quell’interludio secolare di grandi scommesse per l’Umanità che un attento studioso londinese, il dottor James Parkinson, descrisse per la prima volta, nel 1817, questo strano malanno, che lui stesso chiamò “paralisi agitante”, che è quasi una sorta di controsenso in termini, ma che spiegava molte cose già da allora.
Così, partendo dall’energia a carbone per arrivare a quella atomica, passando per la petrolchimica di Porto Torres e dintorni, oggi sappiamo che alla base di tutto c’è che anche nel nostro cervello esiste una certa “sostanza nera”, che non va né a carbone né a petrolio, ma trattasi di una particolare formazione nervosa situata nel mesencefalo, dove si produce proprio la dopamina, che a sua volta agisce da neurotrasmettitore connesso al cosiddetto “corpo striato”, un altro luogo cerebrale misterioso, che pare controlli le funzioni motorie del nostro organismo, compresi i muscoli e tutta la meccanica dei nostri movimenti.
Perciò, senza dopamina (presumibilmente uccisa, ad una certa età, “dae su progressu, gazzu!”), a soli 72 anni,  niente più ginnastica, né salto con l’asta e perfino qualche difficoltà nell’uso del rasoio da barba con la mano destra. Poco male, comunque, per uno come me che ha imparato a calciare col sinistro, anche se non gioco più al pallone da quasi sessant’anni.
Le ultime partite vere risalgono ai tempi della scuola media. Giocavo sempre da terzino sinistro nella mitica squadra della sezione F della scuola media n. 2
I tempi della Brigata Sassari erano finiti grazie ad una provvidenziale bocciatura proprio in prima media, dovuta ad un professore stronzo, che durante tutto l’anno, allo scopo di dimostrare ad una  scolaresca di figli di papà che un povero orfanello collegializzato come me non poteva essere all’altezza del loro lignaggio di piccoli borghesi emancipati, m’aveva messo nella condizione di fare quasi sempre scena muta (all’epoca, i professori stronzi erano particolarmente abili in queste particolari strategie scomunicative). Una volta arrivò al punto d’impiastricciarmi la faccia col gesso, giusto per far scompisciare dalle risate i mie compagni emancipati, mentre cercava di farmi ripetere la declinazione latina del superlativo “illimus, illima, illimum”. Da quella volta mi chiusi nel mio mutismo più assoluto. L’unica reazione piuttosto appariscente agli sberleffi del prof fu il ritorno sistematico del tic alla destra del collo, con frequenti contrazioni mascellari, che furono da lui interpretati spesso come forma di sprezzante menefreghismo, che mi costavano felici espulsione dall’aula. Evvai, mister parkinson junior!
Alla fine dell’anno mi diede appuntamento a settembre con ben quattro materie da  recuperare, che io mi guardai bene dall’approfondire durante l’estate trascorsa casa, perché ormai ero abbastanza informato da sapere che sarebbe bastata una bocciatura a scuola per essere “scacciato” ignominiosamente  dal Collegio. Cosa che avvenne puntualmente alla riapertura del nuovo anno scolastico. E pensare che in tutti quei cinque anni di clausura, il mio unico obiettivo era sempre stato quello di studiare, più o meno scientificamente, come prendere il volo oltre le sbarre di ferro della cancellata e filarmela per sempre, senza l’aiuto di nessuno, tanto meno di un professore stronzo..
La sola cosa che mi dispiacque tantissimo, in quella magnifica occasione, fu l’aver dovuto abbandonato mio fratello Umberto a cavarsela da solo, negli umidi androni e nei dormitoi gelati della Brigata Sassari. Non sono mai riuscito a capire quanto gli costò la mia assenza nei suoi due anni di prigionia che seguirono. Ora non aveva più nessun fratellino da proteggere e nessun alibi per difendere se stesso.  
In quanto a me, ricominciai tutto daccapo nella stessa scuola media numero 2, ma con ben altri compagni e professori. Era l’autunno del 1951 e si respirava un po’ dappertutto un’aria completamente nuova, scuola compresa, che proprio da quell’anno sembrò imboccare una nuova strada.
Il mio obiettivo principale, da quel momento in poi, fu uno solo, ma definitivo e categorico: dimenticare quei cinque anni perduti della mai infanzia, per rinascere e ricostruire una vita nuova.
La tecnica di approccio a questa nuova visone del mondo fu semplice ed efficace allo  stesso tempo. Cancellai dalla mia memoria il Collegio e tutte le sue regole semicarcerarie; dopo di che mi applicai a scoprire sistematicamente il mondo “esterno” com’era veramente, senza i condizionamenti e le inibizioni del mo vecchio status forzato di collegiale, cercando di dare un senso concreto a tutte quelle pulsioni e scoperte che l’età preadolescenziale metteva in prepotente evidenza, riempiendo il mio cervello di sensazioni mai provate prima. Insomma, un vero gioco da ragazzini!
Ma la cosa che mi affascinò di più, dopo le prime esperienze di libertà e di autonomia, fu la scoperta del concetto di appartenenza ad una vera classe,  che voleva dire amicizia a vari livelli. Nel nostro caso, la classe si divideva in “greffe”, e cioè in bande ristrette di veri amici indivisibili, dove nessuno era un vero capo, ma ciascuno poteva diventare leader in circostanze diverse.
Nelle partite di calcio, per esempio, che giocavamo quasi tutti i sabati nel cortile interno della scuola,  il leader riconosciuto era Pasqualino; piccoletto e scattante,  lui giocava in mezzo al campo e distribuiva palloni a tutti con precisione, non disdegnando di segnare dei bei goal da qualunque posizione.
Ma nell’attività fisica in generale, il vero leader era Tonuccio, che stava sempre davanti a tutti nelle gare sportive di ogni genere, compreso il calcio, naturalmente, dove giocava all’ala ed era una vera freccia imprendibile. Da grande si occupa ancora di calcio giovanile, soprattutto come allenatore, tanto da diventare delegato nazionale dell’AIAC (Ass. Naz. Allenatori Calcio).
E poi c’era Gianni, detto Johnny, che non arrivava quasi mai a toccare il pallone, perché era miope come una talpa, ma si divertiva più di tutti.
In quanto al sottoscritto, oltre a difendere la porta da battitore libero, leggevo da Dio l’Odissea a voce alta, in classe,  per cui la professoressa Cotogno, innamorata di Omero, non perdeva mai l’occasione di farmi declamare i versi del grande poema omerico, che io interpretavo con passione tutta teatrale, perché proprio in quell’anno avevo per la prima volta recitato in parrocchia un particina nel drammone “La cieca di Sorrento”, diretto da mio fratello Giovanni, che mi scaricava di tanto in tanto un  personaggio nel teatrino parrocchiale, giusto per coprire i buchi dell’organizzazione, di cui era  creatore, autore, regista, attore, costumista, scenografo, maschera e addetto alla biglietteria parrocchiale.
Ma poi, un brutto giorno (per me), mentre io ero assente per una banale influenza, arrivò Gavino da Porto Torres (nel senso che viveva proprio a Porto Torres e viaggiava tutti i giorni con il treno), che chiese di poter leggere l’Odissea al posto mio, dimostrando una capacità espressiva “quasi” uguale alla mia. Quando qualcuno mi avvertì della sua esibizione perfetta, ci rimasi malissimo. Tuttavia, in seguito, da buoni “greffaioli”,  non tardammo a metterci d’accordo per letture  alternate e, qualche volta, persino contrapposte teatralmente.  D’altro canto, era difficile anche per me tenere il broncio a uno come Gavino, che a quell’età era una sorta di allegro birillo tondo e grassottello, pieno di spirito satirico. Ce ne accorgemmo tutti quando rivelò un talento da disegnatore caricaturale veramente notevole, soprattutto nel rappresentare a modo suo, alla lavagna, la Prof d’Italiano, la signora Cotogno, che faceva finta di non accorgersi del gioco irriverente, ma solo di quello affettuoso. Il talento di Gavino lo portò, alla fine delle medie, a iscriversi all’Istituto d’Arte per poi, da grande,  recarsi in America, dove diventò uno dei più grandi grafici pubblicitari del mondo.
In quanto a noi, piccoli gregari della greffa, l’America era davvero troppo lontana. Per cui, terminate le Medie, svoltammo l’angolo del corso Regina  Margherita e c’iscrivemmo quasi tutti alle Magistrali, dove scoprimmo finalmente che fine avevano fatto le ragazzine della nostra età, che alla Media 2 erano completamente sparite: forse cacciate via dal Preside, o forse nascoste nei sotterranei dal misterioso Piè  Veloce, custode invisibile e silenzioso del nostro istituto. Ma questa è davvero un’altra storia. Così come la vecchia Brigata Sassari, un po’ acciaccata e piena di tic, per quanto mi riguardava, riviveva soltanto nei normali libri di Storia..



sabato 25 dicembre 2010

MISTER PARKINSON 4




MISTER PARKINSON 4   

4^ puntata

Siamo già a Natale. .Auguri sinceri a tutti, compreso quell’ultra cinquantenne scriteriato del mio alter ego parkinsoniano che m’ha fregato la dopamina.
Alcune sere fa sono ritornato dal neurologo per un controllo di routine. Piovigginava con una certa continuità ed io mi lasciavo  condurre dall’ombrello ben stretto nella mano destra, che sembrava essere ritornata a suo agio. Ma dopo un certo numero di passi, il mio braccio sinistro mi ha fatto osservare, con molta discrezione, che essendo l’altro braccio e la relativa mano sotto stretta osservazione (“per  via della dolorosa faccenda del Doctor Jekill e Mister Parkinson, lei  capisce!”), a suo modesto giudizio, sarebbe stato utile passare a lui l’ombrello al fine di non affaticare il suo omologo destro durante la visita.
Lui parla sempre “al fine di” e sa essere molto persuasivo.
Ho cambiato mano all’ombrello, Ma dopo qualche passo, il braccio destro s’è messo a tremolare imbronciato, facendomi capire che non apprezzava affatto questa sorta di sottovalutazione delle sue capacità prensili e di sostegno. E infatti, dopo avergli restituito l’ombrello, il tremore è cessato immediatamente, mente il braccio sinistro metteva mano alla tasca del cappotto con non curanza, come se avesse altri misteri da esplorare nei meandri oscuri del cappotto.
Ho raccontato subito al mio medico l’episodio della strana diatriba silenziosa tra i due miei arti superiori, e lui ha risposto che avevo fatto male ad appoggiare la richiesta un po’ troppo interessata del braccio sinistro, il cui obiettivo era certamente quello  di mettere a disagio il suo omologo destro, la cui funzione, nel mio caso di destrorso naturale, è pur sempre quella di essere dominante e, quindi, di portatore sano di ombrelli e d’altri pesi da trasporto quotidiano; “Non deve mai far comprendere al suo braccio destro, soprattutto ora che è in difficoltà, che può esimersi dal sostenere un  normalissimo ombrello. E’ un problema di fiducia, in buona sostanza, che dovrebbe convincere la parte fisicamente più debole a reagire ai tentativi di prevaricazione, tipica dei mancini”.
La storia dei mancini prevaricatori mi è sembrata subito un po’ forzata, perché proprio quello strano contrasto tra parte destra e parte sinistra (al di là dei possibili risvolti politici) mi aveva riportato  alla mente un altro episodio della mia infanzia di cui vado ancora fiero.
Avevo non più di dieci anni e vivevo ancora  nel Collegio della Brigata Sassari (escluse le festività natalizie, quelle pasquali e le ferie estive). L’unica cosa che m’impediva di prendere il volo alla Peter Pan oltre il cancello del cortile dell’istituto era la partita di pallone domenicale. Per quegli strani giochi di prestigio del caso e della buona sorte, ero riuscito a farmi arruolare in una delle due squadre di calcio che si affrontavano a viso aperto tutte le domeniche nel campetto tracciato nel cortile. Poiché io ero uno dei più piccoli dell’intera compagnia, difficilmente avrei potuto far parte di una squadra dove dominavano con orgogliosa prepotenza i marcantoni della Brigata. Però io ero uno dei pochissimi aspiranti calciatori a propormi come difensore, mentre quasi tutti gli altri aspiravano al ruolo di centravanti alla Silvio Piola.
Per onore di verità, ci mise pure una buona parola mio fratello Umberto, più grande di me di ben due anni, che a quell’età facevano una  bella differenza e che si presentava come il “battitore libero” della squadra: nel senso che era libero di fare (come un po’ tutti, in realtà) i cavoli che gli pareva. Ma la sua  forza maggiore era la straordinaria capacità di “perdersi” distrattamente nell’area avversaria, come se si trovasse lì per caso; e quando il pallone arrivava dalle sue parti, lui allungava il piedino e, di punta o ti tacco, segnava sempre un bel goal. Insomma, mio fratello Umberto fu il più vicno antenato di Paolo Rossi.
Ma ritorniamo al mio ruolo di difensore. Il mio compito, in realtà, era semplice: dovevo solo aspettare che un attaccante avversario arrivasse dalle mie parti, per poi stenderlo con una scarponata sugli stinchi. Qualche volta ci riuscivo, qualche volta no. In compenso l’arbitro, che era quasi sempre un Istitutore e, come tale, acerrimo difensore di noi orfanelli più deboli, dava quasi sempre ragione a me. Comunque, nel frattempo imparai anche a calciare piuttosto bene di destro, mentre il piede sinistro faceva semplicemente da supporto equilibristico.
Una brutta domenica, però, accadde il fattaccio, Capitò sulla mia zona difensiva destra un nuovo arrivato: un ragazzino lungo  e magro,  originario del Campidano, svelto come uno scoiattolo. Arrivò dalle mie parti più veloce di un alano, dove io l’attendevo al varco mirando al perone sinistro; ma l’alano campidanese miracolosamente si fermò di colpo, e il mio piede destro andò diritto a colpire il gradino più basso della Cappella consacrata, dove frantumò l’alluce e buona parte del resto del piede. Un vero disastro!
La partita fu fermata. Subito arrivò suor Brigida da Bergamo Bassa: l’unica suora factotum del Collegio,  autorizzata alla cura delle galline e dei maiali, che pascolavano sull’altro lato del cortile, e a suturare ferite dei collegiali. E mentre mi toglieva la scarpa e curava la ferita, strillava addolorata: “Puarett bambinett! Puarett bambinett!” . Io la guardavo terrorizzato, perché quello strillo quasi isterico mi ricordava la mattanza di primavera, quando giungevano i macellai ad uccidere il maiale grasso, e lei, suor Brigida, arrivava con un coltellaccio in mano strillando. “Puarett maialett! Puarett,maialett!”
Ma il dramma vero arrivò dopo, quando fui costretto a saltare gli allenamenti e, praticamente, a lasciare la squadra. A quel  punto, allo scopo di non morire di depressione, la soluzione più giusta era il suicidio in pubblico o  l’autosepoltura solitaria da “cassinterrato”.
Mentre cercavo di scegliere la più spettacolare uscita di scena, camminando nervosamente nel campetto vuoto, mi resi conto che il mio piede sinistro, pur adeguandosi al passo rallentato del  corpo, riusciva ugualmente a colpire i sassi piccoli e grandi che io scalciavo con rabbia. Così mi vene l‘idea geniale: “Perché  non...”.
Tempo una serata di allenamento intensivo, e subito capii che la soluzione era già a portata di piede. Così, per l’intera settimana  utilizzai tutto il tempo a disposizione per risvegliare il mio mancinismo nascosto e riportarlo alla luce, col dichiarato obiettivo di riappropriarmi del mio ruolo di terzino volante.
La domenica successiva mi presentai in campo con il piede destro protetto da uno stivaletto, requisito chissà da dove dal mio Istitutore  complice, e un piede sinistro quasi magico, che sapeva colpire il pallone un po’ prima dello stinco dell’ala destra avversaria.  Da allora, calcisticamente parlando e non solo, giocai sempre a sinistra, senza tuttavia trascurare l’aspetto razionale del lato destro, portatore sano di ombrelli e di stincate micidiali.
La mia storia del piede sinistro salvatore sembra aver impressionato il mio neurologo, perché ha un pochino corretto la sua interpretazione del mancinismo cinico e prevaricatore, auspicando in conclusione una sana competizione tra i due confini naturali del mio corpo,
Con buona pace di Mr Parkinson, che si associa agli auguri a tutti di un felicissimo Anno Nuovo..

domenica 19 dicembre 2010

MISTER PARKINSON 3

MISTER PARKINSON 3
3^ puntata

Sabato sera, 18 dicembre, a “Che tempo che fa” di Fabio Fazio su Rai 3,   ho rivisto con immenso piacere la mitica Franca Valeri, attrice satirica inimitabile, da sempre padrona  assoluta del palcoscenico, grazie anche ad uno scanzonato sorriso beffardo, che solo oggi, a novant’anni  suonati, accentua un forte tremolio laterale destro di vecchia data, di cui lei non sente affatto il bisogno di parlare. Ha  invece parlato di sé, del suo lavoro teatrale mai accantonato, dei suoi trascorsi televisivi dai primi anni Cinquanta ad oggi, con la solita leggerezza  e la vis comica di sempre. La voce, a tratti spezzata  dal fiato diventato corto, era come il vuoto sonoro d’un antico grammofono che si riappropria decisamente del suo respiro con l’autorevolezza di chi sa da sempre incantare.  
Il suo ormai vecchio  amico segreto Mr Parkinson, accantonato dietro le quinte,  mostrava sicuramente il broncio.
Quando una persona di quella tempra si fa carico con il sorriso, per decenni, di un problema che è il triplo del tuo, tu che fai? continui a lamentati?  Ma vaff...
Del resto, come fai ad accalorarti per un alter ego balordo, che fa scrivere sul suo foglietto informativo medicamentoso avvertimenti di questo genere:
Prima di iniziare a prendere il ***, il medico deve sapere:
° se è in gravidanza o pensa di esserlo; - ° se sta allattando al seno; - ° se ha meno di 18 anni di età;  -° se ha un grave problema di salute mentale”...
Come faccio a chiedere al mio medico, che è maschio adulto e sposato con figli, se li sta ancora allattando al seno? E se sì, come valuterebbe il suo “stato di salute mentale”?
In compenso, però, ecco un altro duplice avvertimento che suscita invece un particolarissimo interesse:
Se lei (nel prendere il farmaco) ha avuto esperienze di qualsiasi stimolo e/o comportamento non usuale (quali gioco d’azzardo eccessivo o comportamento sessuale eccessivo), avverta il suo medico”.
Riguardo al primo punto, e cioè lo stimolo al gioco d’azzardo, confesserò che da ragazzo, quando frequentavo l’azione cattolica di fronte a casa mia, nel “patio” di Vicolo delle Campane di San Donato, mi lasciai trascinare follemente dal Calciobalilla, pur non essendo particolarmente bravo, tanto da rimetterci, a volte, anche 10 lire a serata. Fu proprio a causa di questo viziaccio che l’allora vice parroco della chiesa di San Donato, don Gavino, mi dimise da chierichetto. Oggi gioco la  stessa schedina all’Enalotto tutte settimane da almeno un anno, cioè da quando vinsi un tre da euro 21,15, ma ancora non prendevo il farmaco incriminato. E soprattutto non conoscevo la sindrome dell’amico immaginario scommettitore.
Invece, per quanto riguarda il “comportamento sessuale eccessivo”, dovuto presumibilmente  all’uso smodato del farmaco in questione, lo sto monitorando con estrema attenzione. Che significa comportamento sessuale eccessivo? Che potrei esagerare con gli sguardi languidi, mentre mi spoglio per andare a letto? Oppure che prima o poi mi esibirò in strane danze lascive, mentre lei prepara la colazione? A parte il fatto che, da una vita ormai, sono io a preparare la colazione, dopo averla svegliata con una tazza gigante di caffè, non vedo il motivo per cui quel “bugiardino” s’impicci nella nostra intimità. Sono cavoli nostri!
Tuttavia, ripensandoci un poco, forse anche in questo campo, il mio alter ego immaginario potrebbe avere in qualche modo influenzato il nostro rapporto  fin dagli esordi.  
Quando m’innamorai di Iole, a poco più di vent’anni, non sapevamo niente di sesso e roba simile. La scuola non ne parlava, per la famiglia era un tabù e perfino i programmi della Tv, che era nata da poco, evitavano accuratamente di parlare di queste cose. Anche se, in verità,  le lunghe gambe seminude con cui le gemelle americane Kessler traversarono “ciuccio l’Ilinois per venire in Italì” facevano insospettire i giovanotti come noi, mentre i benpensanti e i prelati con l’Alzehimer incorporato facevano di tutto per nascondere chissà quali misteriosi segreti.
La prima volta che riuscimmo a sgattaiolare dalla piazza Stazione, dove lei  abitava e dove a noi due era d’obbligo passeggiare, sotto il controllo di Cristina, la sorella più piccola di Iole, che ci scrutava dal terrazzo del terzo piano senza mai stancarsi (anche perché era paraplegica fin da bambina e stava seduta in carrozzina), fu quando finalmente la convincemmo di chiudere prima un occhio e poi tutti e due, dopo di che, noi  filammo velocemente verso i giardini pubblici, dove trovammo una bella panchina solitaria sistemata sotto un platano.
Per circa un’oretta parlammo del più e del meno. Poi, nel silenzio, incominciammo il primo, cauto approccio. Che per me fu disastroso, perché, non sapendo che fare, entrai in paranoia e incominciai a tremare come una foglia. Iole, dal canto suo, da buona futura moglie responsabile, m’incoraggiò a calmarmi. E poi, quando finalmente riuscii anch’io a controllare quel possibile antenato stronzo di Mr Parkinson, che forse stava già in embrione dentro di me, ecco arrivare due poliziotti della Buon Costume.
“Beh, che famo qui?” – “ Nun va detto quarcuno che ai giardini pubblici nun se pò pomicià?”
Avevano fatto entrambi il militare a Frascati ed erano diventati Continentali.
Ce la filammo zitti zitti e andammo a recuperare altrove l’approccio perduto.  
Proprio quella sera  (o qualche giorno più in là) ripartiva la serie televisiva “La regina e io”, dove Franca Valeri rilanciò il personaggio radiofonico della “Sora Cecioni”, popolana snob con i bigodini e qualche piccolo tic espressivo, perennemente al telefono con sua madre. 

giovedì 16 dicembre 2010

MISTER PARKINSON, I SUPPOSE

MISTER PARKINSON, I SUPPOSE

2^ puntata
La maledizione azteca della dopamina


Ormai so quasi tutto sul mio nuovo amico invisibile: l’irreprensibile, silente e un po’ morboso Mister Parkinson, che non ha trovato di meglio da fare che venirmi a trovare alle soglie del mio 72° compleanno, che cade il 21 di dicembre: durante il solstizio d’inverno, la notte più lunga dell’anno e possibile data di chiusura dell’Umanità nel 2012, secondo il calendario azteco.
Ma io che c... c’entro con quello stupido calendario? Non ho mai nemmeno capito come funzioni!  
E poi, non sono neppure mai stato in Messico. In Bolivia sì, però. Con Iole, mia moglie, nel 2008. Siamo arrivati fino al Lago Titicaca, a oltre 4.000 metri di altitudine, dopo un lungo viaggio in pullman da La Paz, la capitale della Repubblica Boliviana.
Solo per un pelo non abbiamo incontrato El Mitico Presidente Morales.
Comunque è stata un’esperienza bellissima, anche se faticosa, soprattutto per Iole, che sulla piccola Isola del Sol, illuminata notte e giorno da Luna e Sole e sperduta su quel gran mare di acqua dolce come una giunca-fassonis inchiodata al rosso dell’alba e del tramonto, abbiamo faticato a star dietro al prof Danilo Manera, il capo spedizione, che marciava con passo sicuro sui sentieri collinosi e stretti come carruggi della minuscola isola, senza nemmeno masticare mezza foglia di coca.
Nemmeno io l’ho assaggiata, la coca. Bevuta un po’ sì, ma  te la davano a colazione spacciandola per thè, a pranzo per infuso d’erbe salvavita e a cena per camomilla. Forse, proprio per questo, ma senza riconoscerlo, ho incrociato per la prima volta proprio lassù il mio amico segreto indio, El Señor Parkinson.
Aveva un viso rugoso e olivastro, occhi intagliati col machete, zigomi gonfi, naso leggermente schiacciato e una bocca larga che masticava tranquillamente foglie di coca. Sulla fronte gli si stringeva un lembo di sacco di lana grezza, che scendeva lungo le sue spalle, tenendo fermo con l’altro lembo un nuovissimo water di ceramica bianchissima, con tanto di cassa per l’acqua di scarico.
Era l’ultimo della fila di un gruppo di indios che si arrampicavano con addosso quello strano carico lungo un sentiero di collina proprio sotto di noi, partendo da un  barcone sul lago ancorato a terra, ed erano diretti, secondo Danilo, alla cima della collina, dove qualcuno aveva costruito un nuovo villaggio turistico, ma aveva dimenticato i cessi.
Il nostro amico era il più anziano di tutti, più o meno sulla cinquantina, ma pur trovandosi in fondo alla fila, saliva il sentiero con la stessa determinazione dei giovani, tanto più che il lembo di sacco sulla fronte gli serviva anche per asciugare il sudore. Quando arrivò alla nostra altezza, si fermò con un sorriso stanco e  deviò leggermente verso la vasca di una fontanella naturale che si trovava in un piccolo anfratto. Quasi senza fermarsi, allungò la mano destra, l’affogò nell’acqua  e se la passò sulla bocca e sulla fronte. Il braccio e la mano gli tremavano in maniera isterica. Soltanto ora, ripensandoci, mi rendo conto che non si trattava di sola fatica. Ormai ne sono certo: quel saluto con lo stesso braccio tremolante non era un addio, ma un arrivederci. Dopo di che riprese la sua faticosa  salita, mentre il cesso immacolato continuava a fissare imperterrito l’orizzonte di madreperla, che scivolava lentamente verso il tramonto.

(Questa storia del cesso immacolato che fissa l’orizzonte di madreperla me la segno. Non  si sa mai. Metti che l’ambasciatore d’Italia di La Paz, il mitico dottor Silvio Mignano, poeta prestato alla politica,  di cui eravamo ospiti, mi chieda un giorno una relazione, e io allora parto da qui).

A questo punto dovremmo parlare necessariamente di “dopamina”, detta anche “feniletilamina”,  che funziona da “neurotrasmettitore endogeno” ( sì, proprio lui: il famoso neurotrasmettitore endogeno, da non confondere ovviamente con l’omologo neurotrasmettitore esogeno, che non serve proprio a niente), ed è prodotta  in diverse aree del cervello, tra cui l’ormai leggendaria “substantia nigra”, che non piace ai leghisti né tantomeno a Mister Parkinson, il quale appare allo scoperto proprio quando la dopamina (detta anche feniletilamina, per non dimenticare) sparisce misteriosamente dal cervello di alcuni cinquantenni scriteriati, portando alla luce proprio il loro primordiale “alter ego,” o “amico immaginario” che dir si voglia, e lasciando solitamente in pace gli incolpevoli settataduenni in procinto di ricevere i regali di compleanno e di Natale.
Nel mio caso, purtroppo, la mia scriteriata dopamina se l’è quasi svignata fuori tempo massimo, lasciando il campo libero a qualche multinazionale farmaceutica e ai farmacisti senza scrupoli di produrre sostanze simili taroccate, da propinare in quantità industriale al nostro cervello dedopaminizzato.
Ma il problema più grosso, per noi parkinseniani giovani e anziani, è che ci è assolutamente vietato rivelare il nome della nuova sostanza  sostitutiva della dopamina, un po’ per ragione di marketing, ma soprattutto per la presunta pericolosità della sostanza stessa ai non affiliati a Mrs Parkinson.
In proposito, infatti, il cosiddetto “foglietto illustrativo” (meglio noto col nomignolo azzeccato di “bugiardino”) è categorico nell’imporre tassativamente il più assoluto silenzio, con la seguente dicitura (che noi ci siamo permessi di riportare in lingua originale):
Cuesto medicinalen è stato prescritten per lui per-so-nalmenten. Non lo dia ad altri, Conserfi cuesto folio. Poterebbe affere bisog-no di leccerlo di nuofo... Innomine patri et filli et spirictus sanctus”.
Le conseguenze di questa sorta di dictat sono evidenti. Nessuno beve più dal nostro bicchiere, né tantomeno si avvicina più alle farmacie quando Mister Parkinson ci accompagna all’acquisto del medicinale maledetto.
Ma noi ce l’abbiamo duro. E nella prossima puntata saprete il perché.
   

mercoledì 15 dicembre 2010

MISTER PARKINSON, I SUPPOSE



MISTER PARKINSON, I SUPPOSE!

Forse è solo ritornato da un passato lontano, che avevo accantonato troppo in fretta.
Era soltanto un tic, anzi un “ticchio”, come si diceva allora. Un piccolo strappo del nervo destro del collo che mi storceva leggermente la bocca tutte le volte che ero spaventato o preoccupato. Era la mia minuscola “parte oscura” segreta, che solo io riuscivo a sentire e a controllare. Un po’ come l’amico segreto dei primi anni dell’infanzia.
Tre mesi fa la piccola”parte oscura” è ritornata misteriosamente in attività. Più di sessant’anni dopo. Il nervo teso che ti fa storcere la bocca, un fastidio ascellare da eccesso di sudore, un tremolio all’avambraccio destro. Ma solo per pochi secondi e soprattutto a fine giornata. E’ solo un problema di stress, che cavolo! A meno che...
Vado dal mio dottore per un normale controllo e confido con nonchalance la faccenda del fastidio ascellare  e del tremolio. Lui mi guarda con lo sguardo preoccupato, mi tocca un po’ qua e un po’ là, mi misura la pressione, mi fa fare un girotondo e poi sentenzia: “Qui ci vuole un neurologo luminare!”.
Sono andato dal neurologo, il più luminare possibile, che mi ha analizzato letteralmente da capo a piedi; poi mi ha ordinato una tac, due risonanze magnetiche, tre encefalogrammi e un ecodoppler, più una decina di analisi sanguigne.
In una sola settimana ho fatto tutto. Volevo togliermi subito il pensiero di un ritorno troppo lontano al ticchio infantile che credevo di avere accantonato per sempre.
La prima volta che mi ero misurato con la mia “parte oscura” avevo poco più di cinque anni. Mio padre, il ferroviere Sarbadore de Macummere, un mio coetaneo gigantesco, che m’insegnò a lavarmi la faccia con le mie mani a soli due anni e a non avere paura delle rane dell’orto, era stato ucciso, nel ’44,  alla stazione ferroviaria da due balordi soldati sbandati in cerca di cibo, che lo avevano colpito alle spalle con una baionetta, al solo scopo di appropriarsi di un po’ di granturco da un carro merci. Il mio gigantesco coetaneo avrebbe potuto fare polpette dei due cretini affamati, se solo non l’avessero preso alle spalle, approfittando del fatto che mio padre era diventato mezzo sordo a causa delle due scarse bombe lanciate dagli aerei americani sulla stazione di Sassari alcuni mesi prima.
Babbu Sarbadore, come lo chiamavano i miei fratelli più grandi, per me aveva la mia stessa età: non poteva essere diversamente, visto che eravamo cresciuti insieme. Tutta la tua famiglia, a cinque anni, ha la tua stessa età. Perciò incominciai a pensare che se lui era morto, ora poteva toccare a me.
Forse fu proprio per questo che incominciai a storcere il collo ogni qualvolta mi trovavo in difficoltà. Il mio alter ego segreto era uscito allo scoperto.
Nel foglio allegato alla prima analisi del neurologo si parlava di “Parkinsonismo laterale destro”. “Che  significa?” ho chiesto. “Solo un effetto residuale di qualcosa che ha cercato di colpirla a suo tempo, ma non ce l’ha fatta”. Non poteva: a cinque anni sei più forte di un ferroviere e anche di due soldati assassini.
O forse il mio “lato oscuro” si era rivelato due anni più tardi, a guerra finita, quando  fui rinchiuso, insieme a mio fratello Umberto, in un Collegio per orfani di guerra, la Brigata Sassari: un luogo di cui ricordo soprattutto il pianto disperato della mia maestra di terza alla notizia della tragedia del Grande Torino a Superga: “Bacigalupo, Ballarin, Maroso... E poi c’era... Gabetto... Valentino Mazzola. e...”. La sapeva tutta a memoria, ma qualcuno incominciava già a sfuggirle di mente.  
Durante la seconda visita neurologica, il professore ha guardato le lastre, ha annusato l’ecodoppler, ha scrutato le analisi e poi, guardandomi con aria professionale e stringendomi la mano con lo stesso sussiego con cui l’esploratore Stanley interpellò Livingstone,  ha esclamato: “Msr Parkinson, suppongo !”
Mi aveva confuso con il mio nuovo e definitivo alter ego segreto: Mister Parkinson, appunto!
(Continua)