MISTER PARKINSON 12
Rieccoci al tema centrale. Nei momenti di relax dal mio lavoro (chiamiamolo così), mi capita spesso di chiedermi come mai Mister Parkinson abbia scelto uno come me, vissuto in una famiglia numerosissima, com’era negli usi del primo ‘900, senza che nessun altro parente abbia mai ricevuto, che io sappia, una sua visitina anche discreta. E che fine avrà fatto la questione genetica, che sarebbe parte fondante anche della nascita e dello sviluppo del nostro burbero e morboso Mister? Ovviamente, se io fossi il primo della serie per le generazioni future, preciso subito che declinerei fin da ora ogni responsabilità in proposito.
Anzi, l’idea di questo Blog è nata proprio con questa intenzione liberatoria, prima che qualche pronipote si svegli una mattina con il braccio che traballa e si metta ad urlare in giro: “Ecco, lo sapevo! Quello stronzo del mio trisavolo mi ha lasciato in eredità Mister Parkinson”. Perciò è giusto che si sappia in giro fin da ora che io non l’ho chiamato, non l’ho desiderato e, se fosse dipeso da me, non l’avrei mai nemmeno “defecato”. Quello stronzo del Mister.
Ma ritorniamo alle origini, e cioè al mio passato più lontano. Che cosa mi faceva tremare di più da bambino, nella solitudine chiassosa di una famiglia di nove fratelli, di cui proprio io ero l’ultimo nato?... Forse ci sono: la soffitta della nostra casa di Vicolo delle Campane di San Donato. Era un piccolo spazio a ridosso del tetto, raggiungibile tramite una scaletta di legno che immetteva in una cameretta con finestrella, che a sua volta s’affacciava sui tetti del vicinato. Era lo spazio esclusivo, anzi: il “castello” personale di Pietrino, uno dei tanti miei fratelli più grandi, che però era anche lui un ultimo nato. Infatti era il quinto figlio di una prima moglie di mio padre, morta di parto. Un paio d’anni più tardi, Sarbadore Enna si risposò con Amelia Piredda, che gli diede altri quattro figli, compreso il sottoscritto.
Ma ritorniamo alla piccola soffitta. Pietrino ne era gelosissimo, tanto da non permettere a nessun fratello, soprattutto dell’ultima generazione, di metterci piede. Tranne me, naturalmente. Forse perché ero davvero l’ultimo, e difficilmente avrei tentato di appropriarmi del suo “castello”. Io però ci salivo con estrema circospezione, ma solo quando lui non c’era, perché soltanto così avrei visto il mio “Draghetto” luminoso, che viveva proprio nell’angolo più basso del tetto, accanto al lucernario che, nell’ora del tramonto, lo illuminava in pieno e lo riempiva di splendore fiammante, che mi faceva eccitare e tremare allo stesso tempo in tutto il corpo.
Ma perché quel Draghetto silenzioso mi viene alla memoria soltanto adesso. E quanti anni avevo per incantarmi, sia pure tremolante, anziché scappare? Non più di tre o quattro, io credo. Ma ora ho il sospetto che anche Pietrino lo vedesse, e questo spiegherebbe perché permetteva soltanto a me di salire nella sua soffitta. Era il nostro segreto.
Eravamo molto diversi, io e lui. Io silenzioso e riflessivo (così mi qualificava Umberto, penultimo della serie e mio difensore d’ufficio, soprattutto negli anni del Collegio).; lui chiassoso e un po’ “testa di vento”. Io mi eclissavo dal chiasso della famiglia appena possibile, magari dietro il lettone dei miei genitori, a leggere qualche fumetto che fregavo a Giovanni, il primo della seconda serie; Pietrino invece si scatenava con le motociclette del negozio in cui lavorava fin da bambino. Lui aveva un maledetto bisogno di far capire ai suoi fratelli più grandi che valeva molto, perciò sfidava le strade del circondario, anche quelle non asfaltate, esibendosi in sfide paurose, che spesso lasciavano il segno. Poi, un giorno, diventò ferroviere come nostro padre e mise la testa a posto. Sposò Mariuccina ed ebbe tre bellissimi figli.
E la soffitta? Sparita, venduta, dimenticata. Insieme al nostro piccolo segreto luminoso.
Questa volta, niente “Nieddukepighe”, perché forse ho trovato un contatto interessante.
A nos bidere sanos!
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